tudományos-szakmai folyóirat

La pena dell’ergastolo e la sua disciplina attuale nell’ordinamento italiano


Szerző(k): Giulio De Simone, Bory Noémi

Olasz-magyar jogösszehasonlító konferencia, 2019. szeptember 25.

Introduzione

L’ergastolo è la massima pena prevista nel sistema penale vigente in Italia. La pena di morte è stata abolita con la caduta del fascismo: prima per i delitti previsti dal codice penale (art. 1 d.lg.lt. 10 agosto 1944, n. 224) e poi per quelli previsti dalle leggi speciali diverse da quelle militari di guerra (art. 1 d.l. 22 gennaio 1948, n. 21) ed infine anche per questi delitti (art. 1 l. 13 ottobre 1994, n. 589). L’art. 27, comma 4, della Costituzione repubblicana è stato modificato da una legge costituzionale del 2007 e attualmente dispone che «non è ammessa la pena di morte» sicché la sua reintroduzione con legge ordinaria sarebbe da ritenere costituzionalmente illegittima.

Lo stesso art. 27 Cost., al comma 3, pone un principio che assume un’indubbia rilevanza ai fini della valutazione della legittimità costituzionale dell’ergastolo: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Quella rieducativa – ha affermato di recente la Corte costituzionale (sentenza 21 giugno 2018, n. 149) – è una funzione non sacrificabile sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena. La funzione rieducativa della pena – osserva ancora la Corte – deve intendersi «come fondamentale orientamento di essa all’obiettivo ultimo del reinserimento del condannato nella società» e deve «declinarsi nella fase esecutiva come necessità di costante valorizzazione, da parte del legislatore prima e del giudice poi, dei progressi compiuti dal singolo condannato durante l’intero arco dell’espiazione della pena».

Non v’è dubbio, d’altra parte, che la possibilità di accedere a un percorso rieducativo nella fase di esecuzione della pena, in vista di un possibile reinserimento sociale, debba essere riconosciuta a tutti i detenuti, ergastolani compresi1 .

Il testo normativo di riferimento in materia è tuttora la legge 26 luglio 1975, n. 354, detta “legge sull’ordinamento penitenziario”, che è la prima legge di riforma ispirata al principio della rieducazione del condannato. L’art. 1 di detta legge stabilisce che il trattamento penitenziario dev’essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona (comma 1); tale trattamento tende, anche attraverso i contatti con l’esterno, al reinserimento sociale del condannato ed è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni degli interessati.

L’ergastolo comune

«La pena dell’ergastolo è perpetua», afferma l’art. 22 del codice penale.

Sono puniti con l’ergastolo non pochi delitti contro la personalità dello Stato – quali, ad esempio, la rivelazione di segreti di Stato a scopo di spionaggio politico o militare (art. 261, comma 3, c.p.), l’attentato contro il Presidente della Repubblica (art. 276 c.p.) e l’insurrezione armata contro i poteri dello Stato (art. 284 c.p.) –, contro l’incolumità pubblica, quali la strage (art. 422 c.p.), l’epidemia (art. 438 c.p.) e l’avvelenamento di acque o di sostanze alimentari (se dal fatto derivi la morte di alcuno: art. 439, comma 2, c.p.), contro la vita (l’omicidio doloso aggravato ai sensi degli artt. 576 e 577 c.p.), contro la libertà personale (il sequestro di persona allorché il sequestratore cagioni la morte di un minore sequestrato: art. 605, comma 4, c.p.) e contro la libertà morale (il delitto di tortura, previsto e punito dall’art. 613-bis, ma solo nel caso in cui si cagioni volontariamente la morte della vittima). L’ergastolo è previsto anche per il sequestro di persona a scopo di estorsione – anche qui soltanto nel caso in cui si cagioni volontariamente la morte del sequestrato (art. 630, comma 3, c.p.) – che è annoverato tra i delitti contro il patrimonio, ma che, evidentemente costituisce un tipico reato plurioffensivo.

L’ergastolo si applica, inoltre, quando concorrono più delitti, per ciascuno dei quali dovrebbe infliggersi la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni (art. art. 73, comma 2, c.p.). Senza contare tutti quei delitti per i quali in passato era prevista la pena di morte e che ora sono puniti con il carcere a vita.

La legge esclude che i reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti, possano estinguersi per effetto della prescrizione, vale a dire per effetto di quella particolare causa estintiva legata al decorso del tempo (art. 157, comma 8 c.p.). E ciò «in quanto la particolare gravità dei fatti protrae a lungo il ricordo sociale e, pertanto, non attenua l’interesse dello Stato alla punizione»2 .

La condanna all’ergastolo importa sempre l’interdizione perpetua del condannato dai pubblici uffici (art. 29, comma 1, c.p.), l’interdizione legale, che priva il condannato della capacità di agire, ma solo per quanto concerne l’esercizio dei diritti patrimoniali (art. 32, comma 1, c.p.), e la decadenza dalla responsabilità genitoriale (art. 32, comma 2, c.p.).

Al 30 giugno 2019, i detenuti condannati all’ergastolo presenti nelle carceri italiane erano 1.776 (su un totale di 41.103 detenuti) di cui 110 stranieri. Mentre i detenuti condannati a una pena di oltre 20 anni di reclusione erano 2.414 e quelli condannati a una pena da 10 a 20 anni di reclusione erano 6.844. L’ergastolo, come è stato detto, «è una pena frequentemente irrogata, dunque tutt’altro che simbolica»3 .

Nell’originario disegno del codice penale, entrato in vigore il 1° luglio del 1931 (e, dunque, durante il ventennio fascista), l’ergastolo era concepito come pena inderogabilmente perpetua: la durata della privazione della libertà personale veniva a coincidere con quella della vita stessa del condannato. Col tempo, però, questo suo connotato essenziale ha subito un processo di progressiva erosione4  e ciò per effetto di due importanti riforme legislative, che risalgono alla seconda metà del secolo scorso (legge 25 novembre 1962, n. 1634 e legge 10 ottobre 1986, n. 663, che ha apportato, come si vedrà, significative e rilevanti modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354).

Attualmente l’ergastolo non può più dirsi una pena perpetua nel vero senso della parola (per il cosiddetto ergastolo ostativo, però, il discorso è diverso. Ma di ciò si dirà in seguito).

Il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale, quando abbia scontato almeno ventisei anni di pena (art. 176, comma 3, c.p.) e a condizione che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento (art. 173, comma 1, c.p.). La pena, inoltre, si estingue decorsi cinque anni dalla data del provvedimento di liberazione condizionale senza che sia intervenuta alcuna causa di revoca della stessa (art. 177, comma 2, c.p.).

Ma non solo. I condannati all’ergastolo, purché abbiano espiato almeno dieci anni di pena, possono essere assegnati al lavoro all’esterno (art. 21, comma 1, l. n. 354 del 1975); inoltre, quando abbiano tenuto una regolare condotta e non risultino socialmente pericolosi, e sempre a condizione che abbiano espiato almeno 10 anni di pena, possono beneficiare di permessi-premio, così da poter «coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro» (art. 30-ter, commi 1 e 4 l. n. 354 del 1975); possono essere ammessi, dopo vent’anni, al regime di semilibertà (art. 50, comma 5, l. n. 354 del 1975), che è una misura alternativa alla detenzione e che consiste nella concessione al condannato della possibilità di trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale (art. 48, comma 1, l. n. 354 del 1975). L’ammissione al regime di semilibertà è disposta in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento, quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società (art. 50, comma 4, l. n. 354 del 1975).

Tra le misure alternative alla detenzione che possono trovare applicazione nei confronti dei condannati all’ergastolo figura anche la liberazione anticipata (art. 54, commi 1 e 4 l. n. 354 del 1975): al condannato a pena detentiva che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione è concessa, quale riconoscimento di tale partecipazione, e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società, una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata. Grazie a questo meccanismo premiale, i termini per l’ammissione alla liberazione condizionale, alla semilibertà e ai permessi-premio, per il condannato all’ergastolo, possono ridursi ulteriormente (rispettivamente a ventun anni, a sedici anni e venti giorni e a otto anni e dieci giorni di pena espiata).

Si può dire, dunque, con la migliore dottrina, che, per effetto delle riforme del 1962 e del 1986, l’ergastolo ha «perduto i connotati della segregazione perpetua (ineluttabilmente perpetua), quale concepita dal legislatore del 1930. Al condannato all’ergastolo si apre […] una porta che può dargli accesso alla società libera: modellato secondo lo schema dell’esecuzione progressiva, l’ergastolo lascia ora intravvedere al condannato il ritorno allo stato di libertà»5 .

Cionondimeno si è posto il problema – che forma oggetto, tuttora, di vivaci e appassionate discussioni6  – se l’ergastolo, nella sua attuale configurazione normativa, possa dirsi conforme ai principi affermati dalla nostra Costituzione repubblicana e, in particolare, se sia realmente compatibile con il finalismo rieducativo e col principio di umanità della pena (art. 27, comma 3, Cost.). Anche nel dibattito politico non sono mancate le voci critiche: si è affermato da più parti che l’ergastolo è una pena inumana, che toglie all’uomo la speranza e confligge in modo inconciliabile con il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena7 .

Non si può dimenticare che Cesare Beccaria considerava la “pena di schiavitù perpetua” più dolorosa e crudele della stessa pena di morte – e quindi caratterizzata da una più elevata efficacia deterrente – proprio in quanto destinata a protrarsi per tutta la vita del condannato. E nella Francia rivoluzionaria il codice penale del 1791 prevedeva la pena di morte ma non l’ergastolo, considerato più intollerabile; la pena detentiva, in quel codice, non poteva superare i ventiquattro anni.

Purtuttavia la Corte costituzionale, già diversi anni addietro (sentenza 21 novembre 1974, n. 264), ebbe a dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 c.p. – che prevede e disciplina, come si è visto, la pena dell’ergastolo – sollevata con riferimento all’art. 27, comma 3, Cost. (e dunque al principio della rieducazione del condannato), ponendo l’accento, da un lato, sul carattere polifunzionale della pena («funzione (e fine) della pena non è certo il solo riadattamento dei delinquenti, purtroppo non sempre conseguibile»)8  e, dall’altro, sulla possibilità, riconosciuta pure all’ergastolano (art. 176, commi 1 e 3, c.p.), di ottenere la liberazione condizionale, che gli avrebbe consentito un effettivo reinserimento nel consorzio civile9 .

Si finiva però, in questo modo, per disconoscere la rilevanza della finalità rieducativa della pena, che pure, come si è detto, è l’unica a trovare un esplicito riconoscimento nella Costituzione, ritenendola sempre “sacrificabile” in nome di pretese esigenze di deterrenza o di neutralizzazione del condannato10 .

Costituisce, d’altra parte, un evidente paradosso argomentativo sostenere che l’ergastolo non si pone in contrasto con la Costituzione in quanto, nella realtà dei fatti, non è più una pena perpetua11 . Allora – ci si è chiesti polemicamente – se davvero non esiste, perché non toglierlo dall’ordinamento?12

Un’autorevole corrente di opinione continua a manifestare non pochi dubbi e perplessità sulla legittimità costituzionale dell’ergastolo e sulla sua compatibilità con il principio della rieducazione del condannato. Un principio – si è detto – che «non tollera una pena la cui idea di fondo risiede in una perpetua, definitiva espulsione del condannato dal consorzio civile: l’ergastolo tende non a reinserire il condannato nella società, bensì ad escluderlo per sempre; tende a produrre la morte civile del condannato». E c’è chi ritiene trattarsi, proprio per questo, di una pena contraria al senso di umanità (e anche sotto questo profilo incostituzionale), che finisce col negare la stessa dignità dell’individuo. E ciò tanto più ove si consideri il livello intollerabile di sovraffollamento delle carceri italiane13 , che è già costato all’Italia una condanna da parte della Corte di Strasburgo per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (sentenza Torreggiani e altri c. Italia dell’8 gennaio 2013).

È anche vero, d’altra parte, che la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, nella decisione Garagin c. Italia [(dec.) n. 33290/07, 29 aprile 2008], ebbe ad affermare la compatibilità della pena dell’ergastolo con l’art. 3 della CEDU, ponendo l’accento sulla possibilità, riconosciuta anche all’ergastolano dall’art. 176 c.p., di fruire della liberazione condizionale, come, del resto, già aveva fatto, molti anni prima, la stessa Corte costituzionale: «Ai sensi [dell’art. 176 c.p.] – osservò la Corte EDU – il condannato all’ergastolo che abbia tenuto un comportamento tale da mostrare un sincero ravvedimento può essere liberato dopo aver scontato ventisei anni di carcere. Dopo aver scontato vent’anni di carcere può anche essere ammesso al regime di semi-libertà […]. In Italia le pene perpetue sono […] de jure e de facto riducibili. Dunque, non si può dire che il ricorrente non abbia alcuna prospettiva di liberazione né che il suo mantenimento in carcere, fosse anche per una lunga durata, sia in sé costitutivo di un trattamento inumano e degradante».

L’ergastolo c.d. ostativo

Con la c.d. legislazione dell’emergenza, emanata nei primi anni ’90 del secolo scorso per contrastare più efficacemente il preoccupante fenomeno della criminalità organizzata di stampo mafioso, ha fatto ingresso nel nostro sistema penale una nuova tipologia di ergastolo, il c.d. ergastolo ostativo, che trova la sua disciplina negli artt. 22 c.p., 4-bis e 58-ter o.p.

Vediamo di cosa si tratta. Nel caso di condanna all’ergastolo per uno dei gravissimi delitti indicati all’art. 4-bis, comma 1, o.p. (delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza; associazione di tipo mafioso, ecc.), il condannato potrà essere ammesso alla liberazione condizionale e potrà avere accesso agli altri benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione (il discorso non vale, però, per la liberazione anticipata14 ) solo a condizione che collaborino con la giustizia.

In che cosa consista una tale collaborazione, ce lo dice l’art. 58-ter o.p.: nell’adoperarsi, anche dopo la condanna, per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero nel fornire un concreto aiuto all’autorità di polizia o all’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati.

Fanno eccezione a questa regola soltanto le ipotesi di collaborazione impossibile o irrilevante: in tali ipotesi, il condannato potrà accedere ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva (art. 4-bis, comma 1-bis, o.p., inserito dalla legge 23 aprile 2009, n. 38).

Si può dire che la mancata collaborazione con la giustizia equivalga a una sorta di «presunzione assoluta di permanenza dei legami con l’organizzazione criminale – in buona sostanza, una presunzione assoluta di pericolosità sociale»15  e che l’ergastolo ostativo presenti «tutti i connotati di una pena perpetua»16 .

È chiaro che, rispetto alla disciplina dell’ergastolo ostativo, i dubbi e le perplessità circa la sua legittimità costituzionale – in particolare, per contrasto con il principio rieducativo e con quello di umanità della pena (art. 27, comma 3, Cost.) – aumentano in misura esponenziale17 . Proprio per via di quella presunzione inconfutabile di cui si è detto, al condannato non è data alcuna possibilità di dimostrare di essersi ravveduto e di aver reciso i legami con l’associazione criminale di appartenenza; né il giudice potrà verificare, ai fini della concessione di eventuali benefici o misure alternative, i progressi ottenuti dallo stesso condannato nel percorso rieducativo intrapreso, che dovrebbe condurre al suo reinserimento nel contesto sociale.

Si arriva a questo paradosso: «la collaborazione (magari forzata ed enfatizzata perché interessata) fa uscire di galera. La revisione critica del proprio passato (autentica e attestata da comportamenti certi di dissociazione, ma non di dilazione) tiene, invece, dietro le sbarre per sempre il condannato, anche quando ormai è altro da sé»18 .

La pena dell’ergastolo viene a svolgere, in questa prospettiva, una funzione marcatamente generalpreventiva (in chiave di deterrenza) e di neutralizzazione del condannato.

Non senza considerare l’eventualità, tutt’altro che remota, di un errore giudiziario: in questo caso, colui che è condannato ingiustamente non si troverà, per ovvii motivi, nella condizione di offrire utilmente la propria collaborazione all’autorità giudiziaria e dovrebbe così rassegnarsi a rimanere in carcere tutta la vita19 .

L’ergastolo ostativo è una pena senza speranza; è, come qualcuno ha detto, “una pena di morte viva”.

Eppure, la Corte costituzionale, già nel lontano 2003, la pensava diversamente: essa non esitò a dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione relativa all’ergastolo ostativo (art. 4-bis, comma 1, primo periodo o.p.) nella parte in cui, in assenza di una collaborazione con la giustizia, non consente al condannato alla pena dell’ergastolo, per uno dei delitti ivi indicati, di essere ammesso alla liberazione condizionale. «La disciplina censurata – rilevò la Corte in quell’occasione –, subordinando l’ammissione alla liberazione condizionale alla collaborazione con la giustizia, che è rimessa alla scelta del condannato, non preclude in modo assoluto e definitivo l’accesso al beneficio, e non si pone, quindi, in contrasto con il principio rieducativo enunciato dall’art. 27, terzo comma, Cost.». Insomma, la concessione della liberazione condizionale dipenderebbe pur sempre, in ultima analisi, da una libera scelta del condannato, che resterebbe, per così dire, arbitro del proprio destino.

Ma in realtà non è così.

Pochi mesi addietro, la Corte EDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. I, sent. 13 giugno 2019, Marcello Viola c. Italia) si è pronunciata, per la prima volta, sulla compatibilità dell’ergastolo ostativo con i principi convenzionali, ritenendo che la relativa disciplina (art. 4-bis o.p.) limiti eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità di un riesame della sua pena. Tale pena perpetua non può essere, pertanto, definita riducibile ai fini dell’art. 3 della Convenzione. Il filo conduttore dell’intero sistema di tutela messo a punto nella Convenzione – rammentano i Giudici di Strasburgo – è rappresentato dalla dignità umana, che «impedisce di privare una persona della sua libertà in maniera coercitiva senza operare, nel contempo, per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà».

La Corte EDU, in particolare, concentra la propria attenzione sull’unica condizione richiesta dalla legge italiana per poter accedere ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione: la collaborazione del condannato con la giustizia. Essa dubita della libertà della scelta del condannato di collaborare o meno, così come dell’opportunità di stabilire un’equivalenza tra la mancata collaborazione e la pericolosità sociale del condannato.

La decisione di non collaborare con la giustizia potrebbe, in effetti, anche essere dettata dal timore di mettere in pericolo la propria vita o quella dei propri familiari; mentre, d’altra parte, il fatto stesso di collaborare con la giustizia potrebbe non riflettere una reale dissociazione dall’ambiente criminale da parte del condannato, che potrebbe anche agire unicamente allo scopo di ottenere i vantaggi previsti dalla legge.

Da ciò la conclusione: «l’immediata equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale finisce per non corrispondere al percorso reale di rieducazione del ricorrente».

Per effetto di quella presunzione inconfutabile, d’altra parte, al giudice è preclusa qualsivoglia possibilità di valutare concretamente il percorso individuale del detenuto e la sua evoluzione sulla strada della socializzazione. Egli dovrà limitarsi a constatare la mancanza di collaborazione con la giustizia da parte dello stesso detenuto.

Affermazioni, queste, che non possono non essere sottoscritte senza riserve.

Anche la Corte di cassazione, d’altra parte, negli ultimi tempi sembra avere acquisito maggiore consapevolezza della dimensione costituzionale del problema. Essa ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3 e 27 della costituzione (e quindi con riferimento sia al principio di eguaglianza-ragionevolezza sia al principio della rieducazione del condannato) l’art. 4-bis, comma 1, o.p., nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art.416-bis c.p. (norma incriminatrice che prevede il delitto di associazione di tipo mafioso) ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio (Cass. pen., sez. I, ord. 20 dicembre 2018, n. 57913). Anche la Cassazione, peraltro, contesta la plausibilità di quella presunzione inconfutabile di pericolosità, prevista dalla legge, conseguente alla mancata collaborazione con la giustizia da parte del condannato all’ergastolo ostativo.

L’ergastolo ostativo trova attualmente larga applicazione nelle carceri italiane. Stando ai dati forniti dal Ministero della Giustizia, nel 2016 i condannati per uno dei delitti indicati nell’art. 4-bis, comma 1, o.p., erano il 72,5 % (pari a 1.216 individui) sul numero totale dei condannati all’ergastolo.

Il c.d. carcere duro (art. 41-bis o.p.)

Nei confronti di coloro che sono detenuti per taluno dei gravi delitti indicati nell’art. 4-bis, comma 1, o.p. (associazioni con finalità di terrorismo o di eversione, associazioni di tipo mafioso, sequestro di persona a scopo di estorsione, ecc.) o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare un’associazione di tipo mafioso, se vi sono elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, è prevista dall’art. 41-bis, comma 2, o.p. la possibilità di applicare un regime detentivo speciale (c.d. carcere duro)20 .

Questa disposizione fu introdotta nel sistema penitenziario (dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito in l. 7 agosto 1992, n. 356) a seguito delle efferate stragi mafiose di Capaci e di via D’Amelio a Palermo del 1992, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, il giudice Paolo Borsellino e gli uomini delle rispettive scorte e che hanno segnato – è inutile dirlo – una delle pagine più nere e più drammatiche della storia italiana recente.

Lo scopo, evidentemente, era quello di impedire i collegamenti tra i detenuti (sia quelli condannati in via definitiva sia quelli ancora in attesa di giudizio) e le associazioni criminali di appartenenza, in modo tale da neutralizzarne la pericolosità21 .

La facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge sull’ordinamento penitenziario, che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza, è attribuita al Ministro della Giustizia, che vi provvede con decreto motivato, avverso il quale sia il detenuto che il suo difensore possono proporre reclamo (è competente a decidere il Tribunale di sorveglianza di Roma). Presupposto necessario per l’adozione del provvedimento è che ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica.

Quanto alle restrizioni previste (art. 41-bis, comma 2-quater o.p.), esse sono numerose e riguardano sia le comunicazioni tra i detenuti e l’esterno sia i rapporti tra i detenuti all’interno del carcere: limitazioni nei colloqui, nelle telefonate e nella corrispondenza; limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno; limitazione della permanenza all’aperto, che non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone e non può avere una durata superiore a due ore al giorno.

È prevista inoltre, più genericamente, l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna, «con riguardo principalmente alla necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate».

I detenuti sottoposti al regime speciale devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, o comunque all’interno di sezioni speciali, logisticamente separate dal resto dell’istituto, e custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria.

Dal Rapporto tematico del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute (2016-2018), risulta che, alla data del 7 gennaio 2019, il numero dei detenuti sottoposti al regime detentivo speciale era pari a 748 (di cui 10 donne). La stragrande maggioranza di questi detenuti sono autori di reati riconducibili alla criminalità organizzata di stampo mafioso.

Anche con riferimento al regime detentivo speciale, peraltro, si sono posti numerosi interrogativi circa la sua compatibilità con i principi costituzionali22  e la stessa Corte costituzionale ha avuto modo d’interloquire più volte sulle varie questioni. Ricordo che nel 2013 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 24, comma 2, Cost. (che garantisce il diritto di difesa), della disposizione (art. 41-bis, comma 2-quater, lett. b) ultimo periodo l. 26 luglio 1975, n. 354) che limita il numero dei colloqui e delle telefonate dei detenuti con i propri difensori (Corte cost., sent. 20 giugno 2013, n. 143).

Più di recente, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma (art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f l. 26 luglio 1975, n. 354) che pone il divieto di cottura dei cibi per i detenuti sottoposti al regime detentivo speciale, un divieto ritenuto privo di ragionevole giustificazione. Tale divieto, osserva ancora il Giudice delle leggi, in quanto incongruo e inutile, alla luce degli obiettivi a cui tendono le misure restrittive autorizzate dalla disposizione in questione – costituiti dall’esigenza di garantire le esigenze di ordine pubblico e sicurezza e di impedire i collegamenti del detenuto con l’associazione criminale di appartenenza – si pone in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., configurandosi come un’ingiustificata deroga all’ordinario regime carcerario, dotato di valenza meramente afflittiva, contraria al senso di umanità (Corte cost., 12 ottobre 2018, n. 186).

Il regime differenziato di cui all’art. 58-quater e la sua

(già dichiarata) illegittimità costituzionale

Un ulteriore regime differenziato era previsto dall’art. 58-quater, comma 4,  o.p. per le ipotesi aggravate di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione (art. 289-bis, comma 3, c.p.) e di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630, comma 3, c.p.), che ricorrono allorché il colpevole cagioni volontariamente la morte del sequestrato. In queste ipotesi è comminata la pena dell’ergastolo. La disposizione prima citata stabilisce che i condannati per uno di tali delitti non sono ammessi ad alcuno dei benefici indicati nel comma 1 dell’art. 4-bis o.p. (vale a dire: il lavoro all’esterno, i permessi premio e la semilibertà) se non abbiano effettivamente espiato almeno ventisei anni di pena.

Una norma di estremo rigore e del tutto priva di una plausibile giustificazione, ispirata ad una logica marcatamente repressiva e per di più riservata soltanto ad una limitatissima cerchia di destinatari (gli autori di sequestri di persona sfociati nell’uccisione della vittima), a cui veniva preclusa la possibilità di intraprendere un percorso graduale di reinserimento nella società civile, destinato a concludersi con la liberazione condizionale, che pure, singolarmente, gli stessi condannati avrebbero potuto ottenere, trascorsi ventisei anni di espiazione di pena o anche prima, se avessero ottenuto le detrazioni di pena previste a titolo di liberazione anticipata (quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata), ai sensi dell’art. 54 o.p.

Anche sull’art. 58-quater, comma 4, o.p., si è abbattuta, di recente, la scure della Corte costituzionale (sent. 11 luglio 2018, n. 149), che ne ha dichiarato l’illegittimità, ritenendola in contrasto con il principio della “progressività trattamentale e flessibilità della pena”, ossia del graduale reinserimento del condannato nel contesto sociale durante l’intero arco dell’esecuzione della pena. Inoltre, il carattere automatico della preclusione temporale impedisce al giudice qualsiasi valutazione individuale sul concreto percorso di rieducazione compiuto dal condannato all’ergastolo durante l’esecuzione della pena stessa. Un automatismo – conclude la Corte – che contrasta con il ruolo da riconoscere, anche nella fase di esecuzione, alla finalità di rieducazione del condannato, che dev’essere sempre garantita, anche nei confronti di autori di delitti gravissimi, condannati alla pena dell’ergastolo.

Prospettive di riforma: quale futuro, in Italia, per il carcere a vita?

Quale futuro può avere in Italia la pena detentiva perpetua? Non è facile rispondere a questa domanda.

Nell’ultimo quarto di secolo, sono stati elaborati vari Progetti di riforma del codice penale, alcuni dei quali, effettivamente, ne prevedevano l’abolizione (Progetto Riz del 1995, Progetto Grosso del 2001, Progetto Pisapia del 2007).

E nel 1996, nel corso della XIII legislatura, fu presentato in Senato un disegno di legge (approvato il 30 aprile 1998), che però non ha avuto alcun seguito.

Ma il tema non è più all’ordine del giorno da diverso tempo. Ed anzi, nel dibattito pubblico, si reclama a gran voce “più diritto penale”; il che significa non solo previsione di nuovi reati ma anche maggiore severità e certezza delle pene minacciate e inflitte, laddove quando si parla di certezza della pena, si allude impropriamente ad una pena non modificabile in itinere23  (vale a dire nella fase esecutiva), una pena che si dovrebbe scontare fino all’ultimo giorno; mentre, invece, come è stato osservato, la certezza della pena «è concetto flessibile, in ragione dell’incidenza del percorso trattamentale sulle modalità e sulla durata della pena stessa»24 .

Dato il clima culturale che oggi si respira in Italia, l’abolizione dell’ergastolo potrebbe essere interpretata come una sorta di atteggiamento rinunciatario dello Stato che, invece di impegnarsi come dovrebbe, si ritrae dalla lotta ai più gravi fenomeni criminali25 . Come ha detto qualcuno (Pulitanò), « abolire l’ergastolo è un messaggio di giustizia mite, che si presta a essere interpretato come lassismo»26 .

A me sembra, tutto sommato, che l’ergastolo comune, proprio perché non riveste più il carattere della perpetuità ed è anzi, come ha avuto modo di verificare la stessa Corte EDU, una pena “riducibile”, possa avere ancora cittadinanza nel nostro sistema penale e che si possa, forse, sdrammatizzare la questione della sua legittimità costituzionale27 .

La decisione se abolirlo o meno è una decisione essenzialmente politica, rimessa, come tale, alla discrezionalità del legislatore ordinario. Sostituirlo con una pena detentiva di lunga durata, con un limite minimo e un limite massimo – come proponevano, del resto, di fare alcuni progetti di nuovo codice penale (Progetto Grosso e Progetto Pisapia) – potrebbe essere comunque una soluzione ragionevole e percorribile. Anche perché la maggiore efficacia deterrente dell’ergastolo rispetto alle pene detentive di lunga durata è un fatto che resta ancora tutto da dimostrare28 .

Non è così per la disciplina dell’ergastolo ostativo, che suscita, come si è visto, sotto vari profili, seri e fondati dubbi circa la sua legittimità costituzionale e alla cui riscrittura, anche e soprattutto alla luce della recentissima sentenza della Corte EDU, bisognerebbe porre mano quanto prima. In questa prospettiva, un utile punto di partenza potrà essere rappresentato dalle proposte formulate di recente da una Commissione istituita nel 2013 presso il Ministero della Giustizia, presieduta dal Prof. Francesco Palazzo, e, rispettivamente, dagli “Stati generali dell’esecuzione penale”, una iniziativa promossa dal Governo italiano nel 2015, che ha coinvolto la comunità istituzionale, il mondo accademico e gli addetti ai lavori, allo scopo di elaborare un progetto di riforma del sistema penitenziario.

La “Commissione Palazzo” ha suggerito di modificare il contenuto della disposizione relativa all’ergastolo ostativo (art. 4-bis o.p.) prevedendo (al comma 1-bis), come ulteriore ipotesi rilevante ai fini della concessione dei benefici penitenziari, quella «in cui risulti che la mancata collaborazione non escluda il sussistere dei presupposti, diversi dalla collaborazione medesima, che permettono la concessione dei benefici summenzionati», ferma restando la condizione che siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. La proposta è volta, in pratica, a convertire l’attuale presunzione assoluta di non rieducabilità dell’ergastolano non collaborante in una presunzione relativa, consentendo al giudice di superarla con un’adeguata motivazione.

Gli “Stati generali” (Tavolo XVI) hanno invece proposto (v. pag. 72 del Documento finale), innanzi tutto, una modifica del novero dei delitti ostativi, così da limitare sostanzialmente l’ambito di applicazione dell’art. 4-bis o.p. ai soli reti di mafia e di eversione. Hanno proposto inoltre di aggiungere alle attuali ipotesi di collaborazione irrilevante o impossibile, la fattispecie della “mancata collaborazione motivata da apprezzabili ragioni”, qualora sia accompagnata da concrete condotte riparative.

La concessione dei benefici penitenziari resterebbe comunque subordinata, anche in tale ipotesi, alla condizione che siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva.

Conclusione

Vorrei concludere accennando a un’originale e meritoria iniziativa promossa dall’attuale presidente della Corte Costituzionale, Giorgio Lattanzi, in occasione del settantesimo anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana: un “viaggio” nelle carceri italiane. I giudici della Corte costituzionale hanno incontrato i detenuti di sette penitenziari italiani per “raccontare” loro Costituzione, un fatto assolutamente inedito, che non ha precedenti nella storia della nostra Repubblica e probabilmente neppure nel mondo.

«Il nostro discorso nelle carceri, il nostro “racconto” – ha spiegato il presidente Lattanzi – vuole rappresentare il riconoscimento costituzionale della dignità delle persone detenute, vuole indicare che tra il “dentro” e il “fuori” delle mura del carcere non esistono barriere ideali, ma solo barriere fisiche, e che nella Carta costituzionale il carcere non significa esclusione ma impegno per l’inclusione, attraverso un’opera di risocializzazione alla quale non deve mancare l’apporto delle stesse persone detenute».

Giulio De Simone, egyetemi tanár, Universita del Salento; Bory Noémi PhD, adjunktus, Pázmány Péter Katolikus Egyetem, Jog- és Államtudományi Kar


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